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Discussione: Perche' non avremo piu' estati style anni 60'-70'-80' .

  1. #1
    Andrew
    Guest

    Predefinito Perche' non avremo piu' estati style anni 60'-70'-80' .

    Le stagioni sono cambiate, è l'impronta dell'uomo sul clima

    Un effetto riconducibile ai gas serra : L'uomo ha lasciato la sua impronta anche sui cicli delle stagioni: lo indicano i dati dei satelliti relativi alle variazioni della temperatura nella fascia più bassa dell'atmosfera, raccolti in circa 40 anni. E' il risultato dello studio, coordinato da Benjamin D. Santer del Lawrence Livermore National Laboratory, pubblicato su Nature, secondo cui il ciclo delle stagioni si è andato modificando in tutto il mondo per effetto dell'aumento dei gas serra.

    I ricercatori hanno analizzato in tutto il mondo l'ampiezza del ciclo stagionale, ovvero la differenza tipica che c'è tra estate e inverno, per capire come è questo è cambiato secondo i dati rilevati dai satelliti nella bassa atmosfera, la troposfera. Ci sono dei posti nel mondo, ad esempio in Europa, in cui l'ampiezza del ciclo stagionale è notevole: le temperature in inverno scendono sotto lo zero e le estati raggiungono i 40 gradi. In altri luoghi questa differenza è piccola, come nelle Hawaii, dove tutto l'anno ci sono 27 gradi. Secondo lo studio, questa differenza è aumentata nelle medie latitudini. "Ovvero dove siamo noi. Qui gli inverni sono un po' più freddi e le estati più calde", spiega Antonio Navarra, Direttore del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (CMCC). "In sostanza, i risultati di questo studio ci dicono che la differenza fra estate e inverno è aumentata, perché questo ciclo è diventato più ampio".

    I ricercatori hanno verificato che in tutte le zone della terra questo ciclo stagionale si è andato modificando secondo i modelli climatici, per effetto dell'aumento dei gas serra nell'atmosfera. Un effetto dell'antropizzazione, che i ricercatori hanno definito l''impronta digitale' lasciata dall'uomo sul clima.

  2. #2
    Andrew
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    Il clima del Mediterraneo sta cambiando: estati sempre più calde e siccitose -

    Estati più calde e asciutte e, al contempo, precipitazioni più abbondanti e intense in autunno e inverno. Questi i possibili futuri scenari del clima nel Mediterraneo. A dirlo, un team internazionale guidato dalle Università di Colonia e di Pisa con la partecipazione italiana del Consiglio nazionale delle ricerche - Istituti di geologia ambientale e geoingegneria (Cnr-Igag), per la dinamica dei processi ambientali (Cnr-Idpa), di geoscienze e georisorse (Cnr-Igg), dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) e delle Università Sapienza di Roma, Bari, Firenze, Modena e Reggio Emilia. Lo studio, pubblicato su Nature, ha esaminato un archivio naturale di 450 m. di sedimenti, recuperati mediante perforazione dal fondo del Lago di Ocrida, al confine tra Albania e Macedonia, e racconta la variabilità della piovosità nell’area mediterranea degli ultimi 1,4 milioni di anni, fornendo importanti indicazioni sulle possibili tendenze evolutive.
    “Dall’analisi delle proprietà geochimiche dei sedimenti e della composizione della vegetazione fossile, desunta dai pollini intrappolati nei depositi”, spiega Biagio Giaccio, ricercatore Cnr-Igag, “è stato possibile ricavare preziose informazioni sul clima del passato che, grazie all’organizzazione nel tempo di antiche eruzioni dei vulcani italiani, ha creato un vero e proprio archivio paleoclimatico”. Nubi di gas e ceneri prodotte da queste grandi eruzioni esplosive hanno raggiunto il Lago di Ocrida, trasportando e lasciando depositare materiale piroclastico sul fondo, rinvenuto poi come sottili livelli di ceneri intercalati a sedimenti lacustri. “Le ceneri vulcaniche, una volta identificate, hanno permesso di datare e ordinare nel tempo le informazioni paleoclimatiche. Un approccio applicato con successo anche ad altri archivi climatici dell’area del Mediterraneo come i paleolaghi del Fucino e di Sulmona, fondamentali per comprendere la dinamica temporale di processi che hanno guidato la storia climatica dell’intero emisfero boreale”, aggiunge il ricercatore.
    L’analisi dei sedimenti ha evidenziato che durante i periodi climatici caldi simili all’attuale, noti come interglaciali e ciclicamente alternati nel corso dell’ultimo milione di anni a periodi freddi detti glaciali, con alternanze di circa 100mila anni, le precipitazioni nel Mediterraneo avevano una marcata stagionalità, con autunni e inverni particolarmente piovosi ed estati asciutte.
    “In accordo con le indicazioni dell’archivio fossile, le simulazioni dell’evoluzione climatica indicano un’intensificazione autunnale della formazione di cicloni durante i periodi interglaciali. Effetto molto probabilmente imputabile al significativo riscaldamento estivo della superfice del mare, dovuto all’espansione della zona di convergenza intertropicale, con conseguente spostamento e prolungata permanenza estiva dell’alta pressione nord-africana sul Mediterraneo. Un fenomeno simile alle “ondate di calore” che di recente si stanno verificando sempre più frequentemente sul nostro paese”, conclude Giaccio. “Sebbene dovuti a fattori diversi (aumento dell’insolazione estiva dell’emisfero boreale guidato da fattori astronomici, nel caso degli antichi interglaciali; aumento della concentrazione dei gas serra legato all’attività umana, nel caso dell’attuale riscaldamento), gli effetti sulla quantità e distribuzione delle precipitazioni nel Mediterraneo, osservati nell’archivio fossile, potrebbero verificarsi anche come conseguenza dell’attuale tendenza di riscaldamento globale”. I risultati di questo progetto sottolineano il valore dello studio combinato di archivi fossili e modelli climatici, dai quali è possibile estrarre importanti informazioni sulla dinamica del clima del passato, per una migliore comprensione dei cambiamenti in atto e definizione dei possibili futuri scenari.



  3. #3
    Andrew
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    E GLI INVERNI RISULTANO PIU' MITI E SICCITOSI D'UN TEMPO, CON L'UNICA REGOLA D'AVERE BREVI GG. CON AVVEZIONI FREDDE ANCHE DI RILIEVO MA.. ... .. NESSUN PERIODO LUNGO FREDDO !!! È stato presentato a Napoli il “Rapporto sulle economie del Mediterraneo”, curato dall’Istituto di Studi sul Mediterraneo del Consiglio Nazionale delle Ricerche dedicato al tema del legame tra ambiente, crescita economica e stabilità politica del Mediterraneo.

    Nel corso della Giornata di Studi “Clima, economia e ambiente”, svoltasi il 2 marzo 2020 a Napoli, è stato presentato il “Rapporto sulle economie del Mediterraneo 2019” (REM19) curato dal Consiglio Nazionale delle Ricerche – Istituto di Studi sul Mediterraneo (CNR-ISMed).
    Il Rapporto, giunto alla XV edizione, è dedicato al tema dell’ambiente e ne esamina, in particolare, le relazioni con la crescita economica e la stabilità politica: esiste infatti uno stretto rapporto tra questi fenomeni ed è necessario conoscerne e analizzarne con attenzione le dinamiche, poiché da essi può dipendere la stabilità politica e il benessere dell’intera area.
    I cambiamenti climatici sono un fatto eclatante il cui impatto sull’ambiente e sui territori si manifesta attraverso fenomeni estremi, che generano ingenti costi e difficoltà per la crescita sostenibile dell’ecosistema – ha affermato Salvatore Capasso, Professore ordinario di Politica Economica all’Università degli Studi di Napoli “Parthenope” e ricercatore associato CNR-ISMed, curatore del volume edito da Il MulinoQuesto è particolarmente vero per alcune aree del bacino mediterraneo, dove dinamiche del clima, pressioni antropiche e fenomeni economico-sociali si intersecano in un rapporto di doppia causalità: produzioni ed emissioni inefficienti e intensive influenzano il clima che, a sua volta, influenza i processi di desertificazione, le migrazioni e la sostenibilità di intere economie. Questi fenomeni, spesso studiati attraverso approcci mono-disciplinari (le scienze sociali, la climatologia, altre scienze dure…) nel Rapporto vengono analizzati in chiave multidisciplinare, come caratteristico del CNR, con un focus unico. Le distanze tra i livelli di produzione, sviluppo e ricchezza delle economie più ricche e più povere dell’area si traducono in altrettanto differenti relazioni tra attività economica e qualità ambientale. Al crescere dello sviluppo, i Paesi possono infatti permettersi tecniche di produzione più efficienti, virare la struttura economica verso settori meno inquinanti, cambiare attitudini culturali e aumentare il valore della qualità ambientale nel paniere dei consumatori. Anche le pressioni demografiche e il grado di urbanizzazione sfavoriscono le economie meno sviluppate della sponda sud”. Dai dati della ricerca risulta infatti sempre più evidente che, in un contesto caratterizzato da una forte pressione antropica sulle risorse e dalla scarsità di acqua e terra coltivabile, i cambiamenti climatici stanno assumendo sempre più il ruolo di variabile determinante nell’amplificare le criticità del Mediterraneo, prime tra le quali la crisi idrica, l’insicurezza alimentare e i flussi migratori con evidenti impatti anche sulla qualità della vita e sulla salute.
    Le anomalie climatiche hanno agito da acceleratore delle tensioni sfociate in conflitti e rivolte che, a partire dal 2011, hanno infiammato il Nord Africa e la Siria – ha sottolineato Grammenos Mastojeni, viceSegretario generale dell’Unione del Mediterraneo (UfM) incaricato per il settore clima ed energia – Anche se non si possono etichettare le rivolte del Mediterraneo come conflitti ambientali, non vi è dubbio che il cambiamento climatico risulta spesso il fattore scatenante dei conflitti».
    L’elevata sensibilità al degrado ambientale dell’area mediterranea impatta negativamente sulle condizioni ambientali e socio-economiche, e sul livello di sicurezza umana – ha sostenuto Alfonso Giordano, Docente di Geografia politica alla LUISS “Guido Carli” di Roma – Questi fattori, combinati con altri, sono spesso alla base di processi migratori molto complessi. A partire dal 2011, fattori quali le primavere arabe, le crisi alimentari e lo scoppio della guerra in Siria hanno contribuito a creare un’emergenza migratoria che pone sotto pressione la frontiera euro-mediterranea. Chiaramente, i cambiamenti climatici non portano automaticamente a situazioni di insicurezza o conflitti, ma esistono relazioni complesse tra climate change e fattori politici, sociali, economici, ambientali che possono minare la sicurezza o innescare/esacerbare i conflitti. La maggioranza degli studi scientifici indica, non a caso, che la vulnerabilità ai cambiamenti climatici nel Mediterraneo e nell’Africa sub-sahariana risulta tra le principali determinanti delle dinamiche migratorie”. “Il bacino è particolarmente sensibile alle vicissitudini climatiche in quanto collocato in un’area di transizione tra i climi aridi e caldi del Nord Africa e quelli piovosi e temperati dell’Europa centrale. Il clima del Mediterraneo si distingue per la forte variabilità spaziale, con differenze marcate tra il Nord e l’area meridionale, nella stagione sia invernale che estiva – ha prosegue Giorgio Budillon, Ordinario di Oceanografia e fisica dell’atmosfera alla “Parthenope” – L’area del Mediterraneo, a causa di effetti naturali e antropici combinati, soffre di un’alta vulnerabilità in cui il climate change avrà rilevanti conseguenze. L’alternarsi di maggiori precipitazione e lunghi periodi di siccità, il rischio idro-geologico e la scarsità d’acqua aumenteranno, con conseguenze negative notevoli sul settore agricolo. L’innalzamento del livello del mare e l’aumento delle temperature medie ed estreme potrà accelerare l’erosione costiera e influire negativamente sul turismo”.
    Rosaria Battarra, Ricercatrice CNR-ISMed e Carmela Gargiulo, Ordinario di Tecnica e pianificazione urbanistica dell’Università di Napoli “Federico II”, si sono concentrate sugli effetti sulle aree costiere dovuti all’innalzamento del livello del mare, con l’obiettivo di fornire indicazioni di policy utili.
    Circa 150 milioni di persone vivono sulle coste del Mediterraneo, 1/3 della popolazione totale degli Stati che vi si affacciano, quota che raddoppia al 65 per cento sulla riva Sud. Forte aumento demografico, progressivo inurbamento e crescita della pressione demografica nelle aree costiere caratterizzano quasi tutta la regione. In tale contesto, il principale rischio per le aree costiere è costituito dall’innalzamento del livello del mare e dall’erosione. Diversi organismi sovranazionali stanno mettendo in campo iniziative per supportare i Paesi rivieraschi nella messa a punto di strategie comuni ma diversificate. Per esempio, l’UE finanzia iniziative volte a migliorare l’efficienza energetica quale strategia di mitigazione e la politica europea sottolinea la necessità di implementare strategie di adattamento transfrontaliere utilizzando strumenti come l’ENPI (European Neighbourhood and Partnership Instrument). L’obiettivo è rendere l’Europa più resiliente”.

    Esplorando il nesso tra acqua, cibo ed energia – ha osservato Desireé Quagliarotti, Ricercatrice CNR-ISMed – la tendenza verso un uso più intenso delle fonti rinnovabili nei paesi euro-mediterranei potrà favorire un duplice obiettivo: diminuire la dipendenza da paesi politicamente instabili e ridurre le emissioni di gas serra”. Quantunque la crisi climatica sia globale, il bacino del Mediterraneo è un hot spot che si sta riscaldando più velocemente delle altre aree abitate del Pianeta e come tale sarà soggetto più duramente dagli impatti dei cambiamenti climatici. Il Rapporto del MedECC (Mediterranean Experts on Climate And Environmental Change) presentato al 4° Forum regionale dell’Unione per il Mediterraneo, aveva evidenziato che la sua temperatura ha già raggiunto +1,5 °C e che non verranno prese immediate misure per ridurre le emissioni di gas ad effetto serra: entro il 2040 l’aumento di temperatura sarà almeno di 2,2 °C, ma potrebbe salire fino a 3,8 °C in alcune aree del bacino entro il 2100. Inoltre, nel giro di due decenni, 250 milioni di persone soffriranno di scarsità d’acqua a causa della siccità.
    Inoltre, unoStudio recente, coordinato da Giuseppe Zappa dell’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Bologna (ISAC-CNR), insieme all’Imperial College di Londra e all’Università di Reading (Gran Bretagna), rivela che la riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra avrebbe effetti nell’immediato per le precipitazioni della regione Mediterranea che sta sperimentando inverni sempre più aridi.

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